Infanzia -Diana

 

Quante Diana ci sono in Italia? Usciamo a cercarle
di Sara De Carli 22 luglio 2022 . VITA

Una storia drammatica di solitudine e di indifferenza quella della piccola Diana, 18 mesi, lasciata a casa da sola per sei giorni dalla madre e morta presumibilmente di stenti. Una storia che inter-pella i servizi ma anche tutti noi, come singoli. Perché Diana e sua madre Alessia nessuno le ha mai davvero viste nel loro bisogno di aiuto. Sarebbe cambiato qualcosa se in Italia avessimo un capillare servizio di home visiting e parental support? Se i servizi invece di aspettare uscissero? Intanto da un anno è diventato un diritto per tutte le famiglie vulnerabili avere un intervento educativo domiciliare, con tanto di Leps e 80 milioni sul Pnrr.

Una morte in totale solitudine, a 18 mesi, abbandonata in casa dentro il suo lettino da cam-peggio. Un biberon di latte accanto, ma nessuna presenza. A 18 mesi, per sei eterni giorni. Senza mai strillare e piangere, dicono i vicini. Diana è morta così, a Milano. Con una mamma che l’ha lasciata da sola, anziché proteggerla. Una donna disperatamente sola a sua volta, è vero, ma comunque responsabile di un gesto irreparabile. Per chi non ha funzioni giudiziarie, dinanzi al-la morte della piccola Diana c’è soltanto una domanda da porsi. Martellante, ingombrante, inelu-dibile. Perché le lacrime che abbiamo sentito pungere gli occhi, leggendo questa storia, non ba-stano. Avremmo potuto evitarla? Avremmo potuto arrivare prima? Come evitare che accada di nuovo?
Diana c’era, ma nessuno l’ha vista per davvero. Diana c’era, ma non c’è stata la sua mamma. E a dirla tutta non c’è stato nemmeno nessun altro. «Una storia di solitudine ma anche di indifferen-za», commenta Gianmario Gazzi, presidente del Cnoas, il Consiglio nazionale dell’ordine degli as-sistenti sociali. «Dov’era la comunità? Perché siamo tutti iperconnessi e poi ci sono persone invisi-bili ai nostri occhi, di cui ci dimentichiamo l’esistenza? Oggi Diana, un altro giorno l'anziano morto e ritrovato in casa dopo mesi e mesi. Possiamo parlare quanto vogliamo di servizi, risorse, persone e tutti su quel territorio, ricco di servizi e terzo settore, certamente si stanno già chiedendo se po-tevano fare meglio. Ma prima c’è un tema culturale e umano. Tutti abbiamo una responsabilità. Tutti dobbiamo chiederci “Io, dov’ero?”. Contrastare la solitudine e l’indifferenza ci riguarda tut-ti».

A quanto ci restituiscono ad oggi le cronache, dalle dichiarazione degli inquirenti e dalle interviste raccolte tra i vicini, anche Alessia - 36 anni, madre della bambina - è un’ombra: una giovane mamma sola, con una bimba nata prematura e partorita in casa, con i parenti lontani e un com-pagno nuovo che viveva anche lui lontano. Pare che la sua situazione non fosse nota ai servizi so-ciali, né alla Caritas né al terzo settore, in un territorio in cui non si può dire che manchino servizi, associazioni, porte a cui bussare. Cosa non ha funzionato allora nella rete dei servizi e prima anco-ra nella comunità, per far sì che questa bambina e la sua mamma, con il loro bisogno di aiuto, siano state a tutti invisibili? «Casi così ci rivelano – in modo estremo e tragico – una verità che va al di là della singola situazione: troppe volte, noi adulti trattiamo i bambini come soprammobili. Li appoggiamo da qualche parte nelle nostre vite, mentre andiamo avanti a fare tutto il resto come se loro non ci fossero», ha scritto Alberto Pellai. «I bambini che muoiono psicologicamente e mo-ralmente per la trascuratezza di genitori malati e solo apparentemente lucidi sono molti di più di quelli di cui si parla in cronaca», ha affermato invece in un post durissimo lo psichiatra Luigi Can-crini. «Folle e cioè gravemente malati» sono per lui non solo Alessia, ma anche «i servizi sociali e sanitari che di quella madre e della sua bambina avrebbero dovuto occuparsi in un paese civile fin dal momento in cui quella povera bambina è nata. Qualcuno si accorgerà un giorno del fatto che la gravidanza, la nascita e i primi anni di vita possono e dovrebbero essere protetti da una rete capillare di servizi capaci di intervenire nelle situazioni in cui le persone stanno troppo male per chiedere aiuto?».

È questo il punto: non basta che ci siano i servizi, le associazioni, le porte a cui bussare. Occor-re uscire per andare a cercare chi non sa che può chiedere aiuto, chi non sa di aver bisogno di aiuto, chi sta troppo male persino per chiedere aiuto. «Situazioni come questa ci impongono di prendere atto che ci sono famiglie e bambini che cadono nei buchi della rete e che restano invisi-bili ai servizi. Dobbiamo potenziare i servizi con l’approccio delle presa in carico multidimensiona-le ma ancor prima occorre che i nostri servizi cambino, che facciano un lavoro di comunità», af-ferma Paola Milani, ordinaria di Pedagogia Sociale e Pedagogia delle Famiglie a Padova e referente del programma PIPPI. «I servizi non possono stare negli ambulatori e negli uffici ad aspettare le famiglie. È un lavoro diverso, che richiede la capacità di essere nella comunità, di presidio delle intersezioni possibili nella comunità. Occorre frequentare le parrocchie, le associa-zioni, i nidi, i pediatri di base, avere un raccordo con l'ospedale al momento delle dimissioni dopo il parto, con i servizi di ostetricia territoriali… Sono trent’anni che ribadiamo l’importanza del pa-renting support e dei primi mille giorni per la vita di un bambino e finalmente i colleghi giuristi stanno iniziando a riflettere su un diritto al parenting support, cosa che darebbe la possibilità al programmatore sociale di invidiare un Leps. Ci sono situazioni, specie quando i bimbi sono così piccoli, in cui ospedali e pediatri sono le uniche vie possibili per incontrare le famiglie: ma occorre andare nelle case non solo facendo home visiting e concentrandosi sugli aspetti sanitari del post partum o sull’allattamento, ma portando anche il parenting support, con azioni di accompagna-mento alla genitorialità, educative, di prevenzione del maltrattamento. Dove ci sono mamme e bambini, il sociale, l’educativo e il sanitario devono andare insieme, sempre. Spezzettando le ri-sposte, infatti, non si coprono i bisogni della famiglie».
Ecco, se qualcuno fosse andato a bussare alla porta di Alessia, sistematicamente, con un pro-gramma di home visiting o di parenting support, le cose sarebbero andate lo stesso in questo modo? O le fragilità di Alessia qualcuno le avrebbe viste? Perché no, non esistono soltanto “buone mamme” - che sarebbe utopico - nè esistono soltanto mamme “sufficientemente buone”. Non è un marchio d'infamia, potrebbe essere anche solo una situazione temporanea, che ha sol-tanto bisogno di un aiuto. Quello che Paola Milani coordina, PIPPI, è infatti il programma naziona-le per innovare le pratiche di intervento nei confronti delle famiglie cosiddette negligenti, così da ridurre il rischio di maltrattamento dei bambini e il conseguente allontanamento dei bambini dal nucleo familiare d’origine, come forma di messa in protezione. È partito nel 2011 e in questi dieci anni PIPPI ha lavorato con 10mila famiglie, con 260 ambiti coinvolti e 10mila operatori formati ad un approccio multidimensionale che prevede la contaminazione, piuttosto rara, fra l’ambito della tutela dei minori e quello del sostegno alla genitorialità. «Prevenire l’allontanamento non significa “non allontanare”», precisa Milani: «L’allontanamento è una misura di protezione del minore e tutti i dati dicono che in Italia allontaniamo meno degli altri paesi». Prevenzione significa però ar-rivare prima, prima che sia troppo tardi, com’è stato per Diana. Prima che gli stessi che ieri chie-devano “allontanamenti zero” oggi chiedano “dov’erano i servizi?”.

Proprio in questi giorni Milani sta avviando il lavoro con nuovi 400 ambiti territoriali, «grazie agli 80 milioni di euro stanziati nel PNRR per il finanziamento della prevenzione della vulne-rabilità delle famiglie». La novità dell’estate 2021 infatti è che nel Piano degli interventi e dei servizi sociali è stato introdotto per la prima volta un livello essenziale delle prestazioni (LEPS) finalizzato a rispondere al bisogno di ogni bambino di crescere in un ambiente stabile, sicu-ro, protettivo e “nutriente”. Le azioni possibili per dare corpo a questo nuovo Leps - per renderlo esigibile, come si dice in termini tecnici - sono state individuate in quelle già sperimentate in que-sti dieci anni dal programma PIPPI. Che cosa cambia? «Tutte le famiglie che avvertono una situa-zione di vulnerabilità - che sia psicologica, sociale, economica, relazionale, educativa - ora hanno diritto a un progetto di accompagnamento, con dispositivi sia gruppo che individuali, sia di natura formale che informale: uno è proprio l’educativa domiciliare», spiega Milani. «L’ideale sarebbe che questo Leps fosse così conosciuto nella popolazione che le famiglie siano in grado di richiede-re autonomamente l’attivazione, ma sappiamo che è difficile. Intanto puntiamo sulla formazione e la capacitazione dei servizi: non possiamo aspettare di arrivare a questi estremi o renderci conto che la famiglia vive una situazione così grave che bisogna mettere in protezione il bambino. Oc-corre lavorare per intercettare precocemente le famiglie quando i bambini sono piccoli, nella fa-scia 0-3 anni: attraverso i pediatri, i nidi, il reddito di cittadinanza».

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Cara Diana,

ti è toccato questo, tornare presto presto in cielo, dove stanno i bambini non nati. Niente baci, niente carezze, niente balli, niente cacce, niente conquiste. Niente altre angosce.
Non ti toccherà fare la madre, cosa che - come avrai potuto notare sulla tua pelle - dovrebbe capi-tare quando si può contare almeno su qualcuno che vuole fare il padre, e su una società che acco-glie i giovani, i piccoli, le donne che vogliono metterli al mondo, dovendo poi dedicare a ognuno di loro non meno di 20 anni di cure e amore.
Per salvarti sarebbe bastato poco. Si chiama Home Visiting https://cismai.it/…
E' un programma di prevenzione, raccomandato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità per aiutare prima possibile le mamme in difficoltà come la tua. Costa pure poco.
Da quello che ci racconta la stampa la tua mamma presentava tutti gli indicatori che mettono i Servizi in allarme massimo.
Tua mamma partorisce, e in quel momento parte il nostro programma. Non sareste rimaste da sole. E naturalmente non avreste fatto notizia.
Invece ci tocca leggere e sentire gente che fa a gara a cercare in tua madre il dettaglio che ne possa certificare la demoniosità: "Non mostra rimorso".
Quante altre bambine e quanti bambini dovranno soffrire, o morire come è toccato a te, prima che quest'Italia si attrezzi adeguatamente per accogliere la vita, invece di lasciare spazio a questo osceno oscillare tra falso cordoglio, demonizzazione di chi funziona molto male, dei pochi operato-ri che lavorano su queste vite schifose, e un sostanziale menefreghismo.
Ciao Diana.

 

 

 

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